Ho cominciato ad interessarmi dell’ipnosi negli anni ’60, più o meno a diciotto anni, allorché, dopo aver letto un improbabile manualetto da bancarella intitolato “Come ipnotizzare”, feci il mio primo tentativo sperimentale con un amico di buona volontà. Fortuna volle che il mio amico fosse uno di quei rari soggetti che riescono a sviluppare, molto rapidamente, una trance ipnotica “sonnambulica”, con tutti i fenomeni tipici: ipersuggestibilità, catatonia, alterazioni percettive e temporali, analgesia, amnesia al risveglio, ecc.,: una vera manna! Da quel momento mi resi conto che l’ipnosi non era una leggenda romantica o un atto di fede: i fenomeni descritti nel modesto libercolo si stavano verificando in tutta la loro drammaticità sotto i miei occhi!
Dopo un breve periodo caratterizzato da “deliri di potenza” raggiunsi una discreta fama presso gran parte dei vari circoli della mia città, frequentati da coetanei, all’interno dei quali mi esibivo in numeri di ipnosi che sbalordivano e divertivano. L’esperienza di quel periodo giovanile condizionò fortemente le mie scelte professionali, tanto che cominciai ad interessarmi dell’ipnosi nelle sue applicazioni mediche e psicologiche per i miei successivi quarant’anni di vita!
Il primo libro che riuscii a trovare, alla fine degli anni ’60 (a quei tempi i libri scientifici sull’ipnosi erano una rarità), fu “L’ipnotismo” di Franco Granone, edito nel 1962 da Boringhieri. Quel libro, che ancora custodisco gelosamente, mi convinse definitivamente che dovevo imparare tutto il possibile su quel fenomeno: il raggiungimento della Laurea in Psicologia e la specializzazione nell’ipnosi divennero la conseguenza di quella passione.
Dopo la laurea mi dedicai allo studio approfondito del fenomeno dal punto di vista interattivo, esplorandone l’aspetto legato alla comunicazione verbale e non-verbale. Il filone che mi si prospettava era davvero entusiasmante: la letteratura scientifica di quegli anni stava subendo una rivoluzione “copernicana” nel campo della comunicazione e dei suoi aspetti pragmatici, nonché dell’ipnosi.
Mi riferisco al MENTAL RESEARCH INSTITUTE di Palo Alto, California e al suo gruppo di ricerca che, nelle persone di Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson ed altri, negli anni sessanta definì la funzione pragmatica della comunicazione, vale a dire la capacità di provocare degli eventi nei contesti di vita attraverso l’esperienza comunicativa, intesa sia nella sua forma verbale che in quella non-verbale.
La scuola di Palo Alto metteva a punto un “pacchetto” di nuove teorie mediate da assiomi linguistici, filosofici e matematici che, comparati agli assunti della psicologia comportamentale, proponevano un nuovo modello interpretativo del comportamento interattivo umano.
Al progetto di ricerca, sotto la guida teorica di Gregory Bateson e quella clinica di Don D. Jackson, partecipavano anche John Weakland, Richard Fish e Jay Haley, che ne sono stati i principali divulgatori e continuatori.
Tra questi ultimi, Haley e Watzlawick in particolare, ne attingono gli elementi per riconsiderare l’ipnosi sotto un aspetto che avrebbe restituito dignità scientifica, oltre che un nuovo entusiasmo, a questa antica discussa disciplina, figlia naturale di maghi e ciarlatani e stella di prima grandezza con Mesmer, che Braid volle ribattezzare e Freud preferì abortire.
Le ricerche di Haley sull’aspetto relazionale dell’ipnosi furono condotte per circa diciassette anni mediante l’osservazione “sul campo” di Milton H. Erickson.
Questo Psichiatra-psicologo ‘alieno’, più simile ad un alchimista che ad uno scienziato, sembrava infatti ottenere incredibili risultati terapeutici utilizzando il linguaggio ipnotico in modo sorprendentemente aderente agli assiomi che l’equipe di Bateson aveva così laboriosamente sintetizzato inseguendo un’idea che li avrebbe condotti “Verso una teoria della schizofrenia”.
Erickson dimostra che lo strumento ipnosi può essere usato in maniera diversa rispetto a quanto Freud aveva imparato da Charcot a Nancy e che ne aveva frustrato le aspettative determinandone il “grande rifiuto”.
L’innovazione del modello ericksoniano è quindi nello stile specifico della comunicazione ipnotica, che non è più unidirezionale, con l’ipnotista che utilizza suggestioni dirette e implicanti una risposta di supina accettazione da parte del paziente: al contrario, quest’ultimo, col suo atteggiamento, la sua mimica e le sue domande e persino con le sue resistenze, diventa protagonista e, paradossalmente, controllore del processo ipnotico.
Erickson ha avuto il merito di riabilitare l’uso dell’ipnosi come “strumento terapeutico” ribaltando completamente il concetto post-mesmeriano dell’ipnosi come “cura” e focalizzando tutti i suoi interessi sul modo di intervenire, a livello ‘inconscio’, sui processi che determinano le sofferenze nevrotiche.
Questo modello, ormai considerato universalmente come una delle strategie di modellamento psicoterapeutico tra le più geniali ed efficaci, è entrato nell’uso comune della mia attività clinica rivelando tutta la sua duttilità ed efficacia in innumerevoli problematiche.
L’occasione di conoscere da vicino i più grandi collaboratori di Erickson mi si presentò nel 1984, anno in cui l’A.M.I.S.I. organizzò, nella sede di Roma, alcuni ‘workshops’ sul modello ericksoniano.
Fu un vero privilegio assistere alle lezioni e agli esperimenti di Ernest Rossi e Jeffrey Zeig: era come se Erickson stesso si manifestasse in tutta la sua “magia” dopo che per tanto tempo lo avevo immaginato all’opera soltanto attraverso la lettura dei suoi libri.
Nel mese di ottobre del 1985 ho partecipato a due eventi storici che si svolgevano a Roma presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore: il Congresso internazionale di Ipnosi e Terapia famigliare e l’8° Convegno dell’AMISI DEDICATO AL “Modello terapeutico di Milton Erickson”, eventi che videro una massiccia presenza dell’intellighenzia internazionale, e che conferivano alla ricerca sull’ipnosi clinica quella dignità scientifica che per decenni, almeno nella nostra Nazione, le era stata negata relegandola, salvo poche eccezioni, nei sottoscala del fenomeno da palcoscenico di periferia o, peggio ancora, negli ambienti di occultisti ed esoteristi.
I personaggi che si alternavano al tavolo delle conferenze erano gli stessi autori dei più famosi e accreditati testi scientifici sull’ipnosi moderna. C’erano gli americani Ernest Rossi, Jeffrey Zeig, Steve Lankton, Kay Thompson, Sidney Rosen: tutti allievi di Erickson. Erano presenti anche i nostri connazionali Franco Granone, massimo esponente della Scuola italiana, Camillo Loriedo, G.P. Mosconi, G. Guantieri, L. Peresson, G. Gulotta e molti altri di cui non ricordo i nomi…
Negli anni 1991/92 ho frequentato il Corso di Ipnosi Clinica e Sperimentale, ricevendone la relativa specializzazione, svolto presso il Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, il cui docente di spicco era il già citato Prof. Franco Granone, Presidente del Centro, grande esperto italiano dell’ipnosi applicata alla medicina, a cui va il merito di aver avuto il coraggio di praticare l’ipnosi in ambiti ospedalieri dove questa disciplina non era certo vista di buon occhio e soprattutto in un periodo (anni 50 e successivi) in cui i pregiudizi esistenti nel mondo scientifico erano assolutamente scoraggianti.
Tra i numerosi docenti della “Scuola italiana” ricordo in particolar modo anche il Prof. Vincenzo Mastronardi, docente alla Cattedra di Medicina Criminologia e Psichiatrica all’Università di Roma, coordinatore del Corso, il Prof. Leonardo Ancona, il Prof. Antonino Sodaro, artefice di numerosi quanto audaci interventi chirurgici in anestesia ipnotica, il Prof. Francesco Bruno, noto Criminologo e una schiera di docenti altamente qualificati che portarono il loro contributo multidisciplinare al sostanzioso programma presentato nel biennio di formazione. La mia tesi di specializzazione, dal titolo ” Ipnosi, metafora, mito. Ragionamento sull’utilizzazione della metafora e del racconto mitico in ipnositerapia” fu discussa in Aula Magna all’esame del Prof. Vincenzo Mastronardi, che al termine della relazione si è congratulato con il sottoscritto per l’originalità dell’argomento trattato.
Confrontando l’approccio della cosiddetta “Scuola italiana” di ipnosi e ai modelli del suo caposcuola Franco Granone con quello della “Scuola americana”, ispirata al modello Ericksoniano, era facile cogliere delle differenze fondamentali che si evidenziavano soprattutto nelle tecniche di induzione e nell’applicazione clinica dell’ipnosi. Il modello “Granoniano” si ispirava in gran parte all’ipnosi tradizionale, che in sintesi proponeva un rapporto ipnotista – paziente all’interno del quale il primo si poneva come “variabile indipendente” e il secondo come “variabile dipendente”, per cui si enfatizzava molto la creazione di uno stato di suggestibilità, ‘conditio sine qua non ‘ alla promozione del cambiamento terapeutico. Il modello “Ericksoniano” invece considerava il paziente la “variabile indipendente” e il terapeuta, in quanto “variabile dipendente” doveva modulare il suo comportamento adattandolo caso per caso e operando in maniera “strategica” per eludere i meccanismi di difesa che inconsciamente il paziente oppone al cambiamento terapeutico.
Per quanto riguarda il mio approccio alla terapia ipnotica, aldilà di considerazioni sulla bontà dell’una o dell’altra scuola, che potrebbero essere soggettive, ho scelto il modello ericksoniano in quanto, dopo aver sperimentato entrambi i modelli, mi ha dato i risultati migliori nella pratica della psicoterapia e, soprattutto mi ha consentito di esprimere una mia componente artistica che in questo tipo di approccio può essere considerata un sostanziale valore aggiunto.
La mia formazione di esperto in Ipnosi si è ulteriormente arricchita di un approccio alla induzione della trance che si differenzia in maniera piuttosto netta dai modelli sopra descritti: mi riferisco alla cosiddetta “Ipnosi dinamica” frutto degli studi effettuati da un outsider non molto considerato (a torto) negli ambienti della Psicologia e della Medicina nazionale. Il Dott. Stefano Benemeglio, che ho avuto il piacere di conoscere per aver frequentato i suoi corsi, nel 1979 presentò in Televisione, precisamente ad un ‘talk show’ di Maurizio Costanzo dal titolo “Bontà loro” una tecnica che in pochi secondi, con suoni e toccamenti, senza pronunciare parole, determinava uno stato di ipnosi tale da produrre uno stato di anestesia sulle mani e sul volto di un ospite (l’attore Mario Scaccia) il quale, sfiorato dalla punta di una sigaretta accesa non manifestava riflessi nocicettivi né percepiva dolore.
Convinto che non si trattava di trucchi televisivi o di prestidigitazione, incuriosito da questo approccio alquanto inedito e innovativo decisi di approfondirne la conoscenza frequentando i corsi di ipnosi Dinamica che si tenevano a Roma in Via delle Sette Sale.
A quei tempi Stefano Benemeglio non era laureato né in Psicologia né in Medicina, ma era solo un abile praticante e cultore dell’ipnosi, e questo dato di fatto lo poneva in una posizione piuttosto pregiudizievole, al punto di non essere preso in seria considerazione negli ambienti dell’intellighenzia scientifica. Tuttavia, essendo io stesso un pragmatico, mi iscrissi ai suoi corsi.
Mi resi ben presto conto che i meccanismi dell’ipnosi Dinamica, pur presentati in maniera piuttosto ‘personalizzata’, erano assolutamente efficaci nel determinare degli stati di trance utilizzando la comunicazione non verbale, e permettevano di aggirare facilmente le resistenze del soggetto e di velocizzare enormemente i tempi di induzione.
La tecnica dell’ipnosi dinamica era sicuramente da prendere in considerazione, soprattutto quando ci si proponeva di indurre velocemente la trance: tuttavia l’aspetto della utilizzazione clinica della trance, ovvero della promozione del cambiamento terapeutico, richiedeva ben altro.
Il modello ericksoniano, infatti, non comprende soltanto l’introduzione di tecniche innovative nella fase di induzione della trance, ma elabora una struttura complessa che parte dall’osservazione del paziente nei movimenti minimi, della gestualità, delle modifiche del respiro, del battito cardiaco, dei cambiamenti della colorazione della pelle, della dilatazione delle pupille, dei segnali paraverbali ecc., per arrivare poi ad utilizzarne i modelli individuali. Questo modo così intensivo di studiare il paziente nella sua comunicazione verbale e non verbale, ne sottolinea la sua unicità e, conseguentemente, lo pone al centro di un’azione terapeutica assolutamente personalizzata.
L’induzione della trance ipnotica costituisce l’inizio della fase preparatoria del cambiamento: il lasciapassare per giungere al cospetto dell’entità emozionale dell’individuo, l’inconscio. La fase dell’utilizzazione della trance, che segue la fase induttiva, costituisce il momento chiave del modello ericksoniano, in quanto dovrà generare l”atto di magia”, ovvero il cambiamento terapeutico, la “restituito ad integrum”.