Mi capitano sempre più di frequente persone che sono state in terapia da altri colleghi e non hanno risolto i loro problemi. Un anno, due, perfino cinque anni di psicoterapia senza che le loro fobie, gli attacchi di panico, l’ansia, siano stati definitivamente superati.
Nel primo colloquio anamnestico mi raccontano che grazie alle numerose sedute di psicoterapia hanno capito tutto dei loro problemi, hanno imparato a conoscere tutti i lati oscuri del problema… ma continuano ad avere gli stessi sintomi, e si dicono sofferenti, stanchi e abbastanza delusi.
Quando mi capitano questi pazienti ho subito la sensazione che con loro sarà dura, anche perché devo tenere conto delle loro aspettative, cariche di pregiudizi negativi ma anche speranzosi, che mi sento in dovere di utilizzare e che cercherò di trasformare in ottimo materiale per strutturare una psicoterapia efficace.
Come procedere? Il mio approccio non ha molto in comune con gli altri procedimenti terapeutici, poiché inizialmente, nella fase dell’anamnesi, non prendo appunti su quello che il paziente mi dice, mi limito solo a scrivere le sue generalità. Questo perché rivolgo il mio interesse e la mia concentrazione, sul linguaggio non verbale e non intendo perdermi nessuna sfumatura della postura del paziente, dei gesti minimi, dei segnali paraverbali.
Sono quindi interessato più a “come lo dice” che a “quello che dice”, ovvero alla dinamica relazionale che si comincia a sviluppare fin dal primo incontro. La mia memoria si occuperà delle parole e anche se dimenticherò l’età di sua madre e di suo padre non ha importanza, glielo richiederò quando lo riterrò opportuno.
Appare evidente che il mio approccio non contempla, nel modo più assoluto, alcun genere di protocollo, la mia è una terapia centrata sul paziente e non applico piani strategici elaborati preventivamente. Ogni incontro è diverso dal precedente, quindi studio e applico le strategie in modo contestuale.
La mia attenzione, quindi, è sempre puntata sui processi mentali che sottendono il racconto del paziente, sulle cose a cui da più o meno importanza, sulle sensazioni che prova quando descrive gli aspetti del suo problema, ma soprattutto, mi interessa conoscere le strategie che usa per cercare di affrontare il sintomo nevrotico. Questo è forse l’aspetto più importante nell’acquisizione delle informazioni, poiché solitamente le strategie che il paziente mette in atto per cercare di affrontare il suo problema sono ormai parte del problema stesso, anzi sono proprio quelle che, paradossalmente, danno potere alla nevrosi che cercano di combattere e ne rafforzano la stabilità.
Vedremo più avanti in che modo è possibile costruire un cavallo di troia per introdursi dentro questa potente fortezza e scombinarne l’equilibrio.
(Renato Solinas)